La giornata di una volontaria Care the People

Il resoconto di una giornata  di lavoro di Giulia , la nostra volontaria che si occupa di assistenza ai minori a Danang

Guardo il mio prezioso fogliettino e provo a pronunciare la sequela di lettere, puntini e cappellini che vi è scritta. Mi rendo conto dell’inutilità del mio gesto, non ho comunque idea di come dovrebbero suonare ad alta voce questi trattini, così simili a quelli che conosco eppure così diversi.

Sono le quattro di domenica pomeriggio, e mi trovo da qualche parte a Danang, (Vietnam) in uno dei mille vicoli che si attorcigliano dietro le facciate delle vie principali. Tra due case apparentemente attaccate si aprono stretti viottoli larghi abbastanza da far passare due motorini, ma solo se guidati da vietnamiti, esperti nelle acrobazie su due ruote. Così, tra il numero 122 e il numero 124 della via principale si apre un mondo sul retro,  il 122k, fatto di strade dritte, curve, cieche, rombiche ed ellittiche, tavolini e sgabelli in plastica, biciclette, bambini, nonni, fasci di cavi elettrici da cui pendono rampicanti, cancelli e cortili, cafè che forse sono solo salotti per strada, banchetti di spaghetti, panni stesi, odore di aglio e di carne grigliata, incenso bruciato, esseri umani nei loro pigiami dalle floreali fantasie e cani randagi alla perenne ricerca di ombra per sfuggire alla calura. E nessuna indicazione geografica.

Il mio bigliettino ha due lati utili, da una parte c’è disegnata la strada verso la mia meta, dall’altra ci sono scritte tre frasi in vietnamita. “Buongiorno, mi chiamo Giulia, lavoro per Care the People. Questa mattina non sono riuscita ad incontrare sua figlia. Quando torna potrebbe darle questa lettera e dirle di chiamarci?”.

Grazie alla mia mappa personalizzata sono riuscita ad arrivare nel vicolo giusto. L’assenza di numeri civici non può nuocermi, riconosco la casa. Ci sono già stata e ci sono cose impossibili da dimenticare; dove abita la prima ragazzina di cui mi occupo è sicuramente di una di queste. È una casa bianca, a due piani. La porta è una serranda blu a scorrimento laterale, tenuta aperta da un’asse di legno. C’è una stanza quasi senza mobili, con un frigorifero e uno scaffale su cui sono posati una macchina rosa per cuocere il riso e un fornello. Sotto lo scaffale sono stipate stoviglie, stracci,una bomboletta del gas, prodotti per l’igiene e per pulire la casa. A destra del frigo c’è il bagno, senza porta: un doccino sul lavandino, una turca ed un enorme bidone rosso riempito d’acqua. Davanti al bagno in un catino c’è il bucato. Una ripida scala in legno usurato conduce al secodo piano, un soppalco in sottilissime assi di legno.Un comodino su cui è stato appoggiato un televisore, una stuoia a una piazza incastrata tra due appendini ingombri di vestiti a pallini e a fiori. Il primo piano, come d’uso vietnamita, non ha fineste mentre quelle del secondo piano sono oscurate con dello scotch. Il pavimento è in piastrelle a fiori bianche e verdi, i muri sono stati azzurri, ora sono umidi.

La serranda è aperta, vedo la madre della ragazzina accovacciata in bagno, a lavare i panni. Faccio un profondo respiro mentre guardo con antipatia la sflilza di lettere prive di senso che sto per pronunciare e inizio: “Buongiorno mi chiamo Giulia, lavoro per Care the People. La signora si gira con espressione interrogativa.  “ Questa mattina non sono riuscita ad incontrare sua figlia.”. La donna si alza lentamente, appoggiando le mani al muro e facendo forza per sollevarsi. “Quando torna potrebbe darle questa lettera e dirle di chiamarci?”. È ormai arrivata alla serranda, ma la sua espressione non mostra alcun segno di comprensione, un sopracciglio si è alzato impercettibilmente, aspettando chiarimenti.

Sospiro e mi chiedo cosa avrò mai detto in questo idioma impronunciabile. Già il fatto che una lingua abbia tre differenti lettere “a” è abbastanza seccante, ma che ognuna di queste possa essere pronunciata con sei toni (accenti) diversi, per un totale di 18 modi di pronunciare la lettera “a”… in pratica 17 modi diversi per sbagliare una parola. Qualcuno avrebbe dovuto impedire questa follia fonetica.

La donna mi sorride, in attesa,  e io faccio un altro patetico tentativo di pronunciare in maniera corretta il mio breve messaggio. Ondeggio la testa ad ogni parola, come per aiutare la lingua ad andare nella direzione corretta e a far uscire il suono giusto. Nessun miglioramento percepibile. In una situazione meno complicata potrei semplicemente dare alla signora il bigliettino, farglielo leggere e poi consegnarle la lettera che le devo dare. Ma sognare per sognare, in quel caso potrei parlare un fluentissimo vietnamita e non aver bisogno di alcun bigliettino. Nella realtà la signora è cieca e il mio fogliettino in vietnamita è inutile.

La signora ha 53 anni, quando ne aveva 14 si è unita all’esercito di liberazione ed ha combattuto per la libertà del suo paese. Cresciuta, ha adottato due bambine nonostante le sue condizioni finanziare non fossero incoraggianti. La più grande ora è sposata con due bambini. La più piccola, Ly,  ha 15 anni ed è per lei che mi trovo qui.

Le due donne vivono in condizioni di povertà estrema, fino a due anni fa la mamma lavorava preparando e vendendo tortine di riso per strada. Iniziava a cucinare alle 3 del mattino e finiva di vendere verso le 10. Poi ha subito due attacchi cardiaci, e l’anno scorso ha perso del tutto la vista a causa del diabete. La figlia a 14 anni andava la mattina a scuola, dalle sette e mezza alle undici e mezza, tornava a casa e preparava pranzo e cena per la madre e poi andava a lavorare in un negozio di zuppe di riso dalle 3 di pomeriggio alle 10 di sera. Arrotondava lo scarno stipendio prendendo dagli avanzi le ossa di pollo e rivendendole ai padroni dei cani. Non aveva tempo per studiare, né per seguire le lezioni di recupero come tutti i suoi compagni.  Racconta di aver finito le medie con grande sforzo, di aver fatto fatica a seguire le lezioni per la stanchezza e la mancanza di studio, di non  aver avuto tempo di vedere i suoi amici. Care the People le forniva una borsa di studio, ma quest’anno la ragazza ha deciso di non frequentare il liceo e di occuparsi della madre e del mantenimento della famiglia.

Lavorando come assistente nel negozio guadagna un milione e mezzo al mese, che corrisponde a 53 euro, e può arrivare fino a 3 milioni  tra le mancie e la vendita di ossa.  Il governo passa alla famiglia 210.000 dong la moneta vietnamita  (7.42 €) al mese come supporto statale per i poveri.

La prima volta che io e la mia maestra-collega andammo da loro provammo a convincere Ly a continuare a studiare e ci offrimmo di pagarle il corrispettivo del suo stipendio attuale per tre anni, se avesse accettato di frequentare il liceo.

Anche prima di ricevere la traduzione potei capire che non avrebbe accettato quanto le stavamo offrendo. È molto alta per una vietnamita, ossia più alta del mio metro e sessantuno, con la pelle scura e lucente ed una massa di capelli neri che le arrivano alla vita. Il viso è quello che colpisce maggiormente: zigomi alti e leggermente appiattiti, labbra carnose perennemente serrate, occhi grandi, così scuri da far quasi sparire le pupille, che ti guardano fisso e sembrano aver già visto abbastanza cose per una vita intera. Ha l’espressione seria di chi crede di non avere altra scelta e sceglie di non fuggire.

Le proponemmo allora un corso vocazionale, 3 mesi di training gratuito presso un parucchiere e dal quarto mese uno stipendio. Care the People si sarebbe impegnata a pagarle il corrispettivo dello stipendio per la durata del training.

Questa mattina le avevamo dato appuntamento per presentarla al parucchiere. Dopo mezz’ora di attesa e molte telefonate ad un numero irraggiungibile decidemmo di andare a casa sua, dove trovammo solo la madre. Ci venne spiegato che quella mattina il cellulare era caduto nel bidone dell’acqua in bagno e non funzionava più, e che la ragazzina si era svegliata tardi ed era appena uscita per incontrarci.  Tornammo nel luogo dell’appuntamento ad aspettare, ma un’altra mezz’ora passò senza traccia di Ly. Continuando così non saremmo arrivate da nessuna parte. Decidemmo quindi di aspettare che le venisse in mente di farsi prestare un telefono per contattarci.

Non le venne in mente. Per tutto il giorno. Alle 4 di pomeriggio, terminati altri impegni abbiamo realizzato che la ragazzina era ormai andata a lavoro. La mia maestra era occupata e io mi sono offerta di portare una lettera con le istruzioni e il numero da chiamare alla madre di Ly. La mia collega mi ha scritto le tre frasi di spiegazioni che avrei dovuto recitare, me le ha fatte ripere due volte, ha aggrottato le soppraccicglia, scosso la testa sconsolata e mi ha detto “You can try anyway”.

Ed eccomi qui, seduta per strada su uno sgabello in plastica delle dimensioni di un vasino, a bere thè caldo che la mamma di Ly mi ha offerto dopo essersi fatta prestare un bicchiere dai vicini. Lei mi sorride e io le sorrido, anche se non lo vede.

In un primo momento mi ero illusa che la situazione si sarebbe risolta facilmente. Si era creato un capannello di vicini attratti dalla straordinaria presenza di un’occidentale nel vicolo. Almeno dieci persone tra adulti e bambini avevano circondato me e la padrona di casa, e dopo uno scordinato coro di “Hello” e un rapido parlottio con dita puntate nella mia direzione il nostro pubblico aveva assunto in una silenziosa posa d’attesa, aspettando che io spiegassi a tutti loro il motivo della mia presenza. Speranzosa avevo consegnato loro il mio bigliettino, indicando la mamma di Ly. Invece di leggerlo ad alta voce, ad uno ad uno i nostri spettatori si sono passati il bigliettino, leggendolo a mente come fosse un libretto d’opera, mi hanno guardata ed hanno annuito, esclamato un asiatico “aaah” di comprensione e grati di essere stati messi al corrente delle puntate precedenti si sono ritornati in posizione d’attesa, pronti ad assistere al resto dello spettacolo.

Solo un’anziana signora ha avuto l’intuizione informare la mia ospite riguardo al contenuto del biglietto, e questa le ha risposto qualcosa in vietnamita. È intervenuto tutto il pubblico per cercare di comunicare con me, accompagnando i gesti al vietnamita.  Capire che mi stavano ripetendo dell’incidente del telefono non è stato difficile, ma rispondere lo era assai. Maledicendomi per aver dimenticato di farmi tradurre la frase “si faccia prestare un telefono dai suoi vicini per favore” inizio a indicare i presenti e fare il gesto di un telefono e di “dopo”. Il messaggio non passa. Dopo qualche tentativo la comunicazione si arena nelle spire dell’incomprensione, il pubblico intuisce la situazione di stallo, si scusa e si congeda. Io e la mamma di Ly rimaniamo sole con la nostra barriera linguistica.

Dopo circa venti minuti di thè caldo e sorrisi, quando inizio a chiedermi se dovrò aspettare le 10 che Ly torni da lavoro, vedo d’improvviso la soluzione venirmi incontro in bicicletta. Una ragazza sui vent’anni sta passando nel mio vicolo, salto in piedi, le corro in contro e le chiedo se parla inglese. La sua risposta risuona alle mie orecchie come la campanella dell’intervallo a scuola,  lo stesso sollievo mi pervade: “A little bit” è appena diventata la mia frase preferita. Le chiedo di farmi da interprete  e le do il bigliettino da leggere. Questa meravigliosa ragazza traduce, spiega, domanda e indica con un’incredibile disponibilità. Dopo cinque minuti è riuscita a far capire alla mamma di Ly che vorrei che sua figlia chiamasse la mia collega, che deve farlo al più presto possibile, che la ringrazio molto per il thè che era molto buono.

Torno a casa con la nuova e scioccante consapevolezza che il linguaggio dei segni  non è internazionale.

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