Valigie, ovvero: Vietnam www.carethepeople.it – seconda parte

Falcone Family

In auto iniziamo a far la conoscenza di Enzo e Tam, provando l’entusiasmo contenuto di liceali al primo incontro, vigili nell’ascoltare e cauti nel chiedere e nel raccontarsi.

C’è tanto da dire per presentarci: se si eccettua la connessione con il ragazzo sostenuto a distanza, loro non sanno nulla di noi, neppure da quale parte d’Italia veniamo.
È stata una nostra scelta precisa tacere su tutto per poter essere più liberi di osservare i loro comportamenti nei nostri confronti e le loro reazioni a mano a mano che scopriamo le carte.

Il gioco delle parti dura però solo pochi istanti perché siamo subito coinvolti in un’atmosfera di serena familiarità e, con Enzo, di immediata condivisione di esperienze comuni: la formazione cattolica ed il distacco da essa, l’interesse per i più deboli, la passione per l’insegnamento di don Milani… Tam, invece, ci stupisce favorevolmente per la scioltezza nell’esprimersi in italiano e ci impressiona per la sua solida tranquillità e pacatezza.

Quanto ai figli Francesco e Chiara, è un piacere incontrare due giovani dai lineamenti vagamente orientali che comunicano con noi nella nostra lingua con proprietà e gentilezza. Ciò che ci conquista, però, è la spontaneità e la sincerità con cui Enzo racconta la sua esperienza in Vietnam. Non usa toni trionfalistici, non se la tira proprio, ci spiega invece con modestia ciò che ha realizzato, quanto vorrebbe ancora fare e soprattutto le difficoltà nell’attuazione dei progetti, gli ostacoli burocratici, la mancanza di mezzi, la fatica e l’entusiasmo persistente nonostante le delusioni e le sconfitte. Insomma è tutto molto vero e reale nella sua narrazione.
Inizia a scendere la sera e sono talmente coinvolta nel dialogo da trascurare il paesaggio attorno, che intravedo appena.

Quasi al buio ci inoltriamo in una babele di stradine fuori mano, sterrate, dove il fuoristrada fatica ad entrare. Alla fine ci fermiamo prima di un cancello. All’esterno dell’edificio sventola la bandiera italiana. ” Questa è la Casa del Sorriso 2, più piccola dell’altra casa di accoglienza. Qui attualmente abitano, seguiti da un’educatrice, otto ragazzi che non hanno altro luogo dove vivere. È stata costruita ed è di proprietà dei volontari italiani di Care the People, ci tengo quindi che fuori sia esposto il Tricolore.”, dice Enzo e Tam annuisce.

All’interno ci attendono i ragazzi residenti, schierati per le presentazioni.
Sono tutti sorridenti, ansiosi di fare la nostra conoscenza e soprattutto di andare presto a tavola dato che abbiamo fatto tardi e sono affamati.

Ci colpisce la ritrosa vivacità di una bimba di circa sei anni. Enzo ce ne spiega la storia. Poco dopo il suo arrivo, nella casa-famiglia cominciarono a sparire vari oggetti. Non ci volle molto ad individuare l’autrice dei furti, pertanto, prima di prendere gravi provvedimenti, si cercò di capirne il motivo. Si scoprì quindi che la bimba regalava alla madre, donna poverissima, alla quale voleva molto bene e che intendeva aiutare, quanto riusciva a trafugare dalla casa. Bastò spiegarle che se avesse continuato a comportarsi in quel modo avrebbero dovuto espellerla, pertanto non avrebbe dimostrato di amare la sua mamma, anzi le avrebbe creato dolore, difficoltà e vergogna. La bimba capì e da allora smise di rubare ed, essendo l’ospite più piccola, divenne la mascotte del gruppo, pienamente accettata ed integrata.

Il pranzo è delizioso, Delio si tuffa su croccanti, freschissimi pescetti fritti, io provo tutti i piatti locali, veramente squisiti e mi abbuffo di insalata di yak.

Tra una portata e l’altra Enzo ci spiega la sua filosofia nella gestione della casa e della vita dei suoi ospiti: desidera innanzitutto che siano vestiti decorosamente, nutriti con cibi genuini e vari, che possano studiare e che conducano l’esistenza di bambini normali all’interno di una famiglia, proprio come quella dei suoi figli veri, di Chiara e Francesco. “Preferisco che qui sia ospite un ragazzo in meno piuttosto che ridurre, per ragioni economiche, le possibilità di conoscenza e di svago a tutti. I residenti della Casa del Sorriso non devono solo essere sfamati ma educati a diventare persone il più possibile autonome e libere, ciascuno secondo i propri interessi e le proprie potenzialità. Voglio quindi che questi ragazzi possano partecipare di tanto in tanto a gite, escursioni, spettacoli teatrali, che abbiano cioè il diritto di imparare anche divertendosi. Potranno così allargare i propri orizzonti, formarsi una mentalità aperta e decidere che cosa desiderino essere nella vita. Voglio dare spazio ai loro sogni.”

Le sue parole mi toccano nel profondo e mi commuovono. Come ex-insegnante conosco il valore della spinta propulsiva motivazionale basata sull’affetto e sul rispetto e vedo con quanta attenzione e partecipazione Enzo e Tam si rivolgano ai ragazzi.
C’è però nel gruppo un giovane riservato ed isolato. Mi informo su di lui. È il suo primo giorno nella casa e la sua storia, davvero penosa, ha spinto i Falcone ad accoglierlo.

Sang ha vent’anni e una madre ambulante, una di quelle povere donne con il cappello a cono che in Vietnam vendono le loro mercanzie ai passanti, trasportandole sui due piatti di un bilanciere appoggiato alla spalla. Non ha padre, è un ragazzo serio ed intelligente e la madre si è sfiancata per farlo studiare. Frequenta Economia all’università con buon profitto.

Un giorno inizia a sentirsi male e le analisi successive evidenziano un tumore al polmone. È necessario un intervento chirurgico. Mancano i soldi per farlo, ma la madre li prende in prestito da un usuraio. L’operazione viene effettuata ed ha un esito positivo. La madre non riesce però a pagare il debito e deve scappare, cambiare città, nascondersi per sfuggire agli strozzini che la cercano per punirla, facendole del male. Sang rimane solo, si ingegna a far lavoretti per sopravvivere e, per mancanza di mezzi, è costretto ad interrompere ogni tipo di cura prescrittagli dai medici alle dimissioni dall’ospedale. Non sa che fare, scrive pertanto una lettera commovente di richiesta d’aiuto alla Casa del Sorriso, che gli spalanca le braccia. Ora è qui in prova, silenzioso e spaventato.

La tavola attorno alla quale abbiamo pranzato è sparita ed al suo posto si è materializzato un calcetto. Inizia una partita e Sang viene invitato a farne parte. Rifiuta, dice di non poter giocare. In effetti notiamo che non riesce a muoversi agevolmente ed ha il collo bloccato. Mi pare abbia problemi di movimento nella parte sinistra del corpo. Enzo dice di non sapere esattamente il suo stato di salute, non ha ancora preso visione della sua cartella clinica e promette di consultarla presto. Delio osserva furtivamente il ragazzo. È evidente che gli fa una gran pena e si offre di dare ad Enzo una mano per aiutarlo.

Anche il calcetto adesso è sparito e ha lasciato il posto ad un tavolino sul quale i ragazzi si affrettano ad eseguire gli ultimi compiti scolastici e a ripassare le lezioni.  La scuola apre presto al mattino in Vietnam, attorno alle 7, e per i ragazzi è ormai l’ora di andare a letto.

Ci hanno accolto con affetto e simpatia, pertanto ci congediamo con rincrescimento da loro, i nostri nuovi amici della Casa del Sorriso.
Le Huy

Per stamane è in programma l’incontro con il nostro ‘nipotino’ vietnamita. Gli andiamo a far visita nella casa dove vive con la mamma. Enzo ci viene a prendere di buon ora in auto per portarci là. Veramente ci aveva proposto di andarci in moto, ma, memore dell’esperienza birmana, ho declinato l’offerta con indubbia determinazione.

Ripercorriamo la strada costiera verso sud, rivediamo la bellissima China Beach e ci dirigiamo verso Marble Mountains. Le Huy abita da quelle parti. Riconosciamo il suo nonno all’angolo di una strada. Lo individuiamo noi prima dell’interprete-segretaria di Falcone, la quale peraltro dovrebbe conoscerlo benino dato che ha avuto modo di incontrarlo più volte. Il volto del nonno ci è familiare, è raffigurato, assieme alla figlia ed al nipotino, in una foto che campeggia sulla nostra libreria. La foto è esposta davanti ai libri, accanto ai volti delle persone a noi più care, all’immagine dei miei genitori nel giorno del loro matrimonio, a quella della nonna Carlotta e degli zii, e dei nostri figli neonati e bambini. Insomma anche Le Huy, il suo nonno e la sua mamma fanno parte a pieno diritto della nostra famiglia. Ed in effetti il Natale senza la “Schifitombola” dedicata a loro non sarebbe Natale.

La Schifitombola è un’istituzione della famiglia Ferigo. Inventata per scherzo da nostra figlia una decina di anni fa, si è nel tempo trasformata in appuntamento imperdibile, frequentato con partecipazione, oltre che dalle amiche di Anna, anche dalla nuova generazione dei loro figli, alcuni già adepti, altri, nati da poco, probabili prossimi aggregati.
È il ritrovo della vigilia di Natale degli expatri-e-non: Antonella e Silvia Mo. vengono dall’Olanda, Anna e Silvia Me. dalla Germania, Milena dalla provincia di Bergamo, che terra straniera non è, ma quasi, e poi ci sono i locali, Tommaso e Sara, Matilde con Alessandro e i gemelli, Serena con Willy, che arriva però solo alla fine di qualsiasi evento sportivo, e gli immancabili zii Giorgio e Mariella.

Ci si riunisce per “ciacolare”, per ridere insieme, per aggiornarsi sulle novità e i pettegolezzi inevasi a causa degli impegni e della distanza e soprattutto per scambiarsi gli auguri di Fine Anno con piccoli regali ‘ecologici’, cioè riciclati, oggetti dei quali disfarsi, possibilmente di cattivo gusto e rigorosamente avvolti in carta natalizia usata, che costituiscono i premi, le terzine, quartine e tombole del gioco natalizio per eccellenza. Si trascorre insieme un pomeriggio gioioso e sereno, dallo scopo benefico finale ben preciso: i soldi che si sono risparmiati nel comprare regali inutili vengono offerti per aiutare qualcuno a cui i denari servono veramente per vivere.
Da ormai tre anni questo qualcuno è stato individuato in Le Huy, al quale viene offerta dalla Schifitombola la possibilità di andare a scuola.

Le Huy è infatti povero, molto povero. La sua mamma ha l’età di nostra figlia e delle altre ‘ziette’ italiane, ma non è stata fortunata come loro. Da ragazza lavorava nella giungla, quando i gas fuoriusciti da una mina scoppiatale vicina l’hanno resa cieca. Alcuni anni dopo ha dato alla luce Le Huy, il regalo più bello che la vita le ha donato e che lei ama teneramente, ma il bimbo è nato e cresciuto senza padre ed è impossibile offrire un futuro decente ad un figlio se si è ciechi e si guadagnano solo diciotto dollari al mese fabbricando scope nell’istituzione che dà lavoro agli handicappati.
Sappiamo che il nonno di Le Huy è molto affezionato alla figlia e al nipotino, che accompagna tutti i giorni a scuola, e che il ragazzo mangia e studia da lui la sera, prima di rientrare nella casa della mamma per aiutarla a sbrigare le faccende domestiche e dormire con lei.

Abbiamo appena conosciuto il serissimo nonno. Fra poco incontreremo il ragazzino e la sua mamma. Siamo emozionati.

Eccolo che ci viene incontro. Com’è cresciuto! Nella foto era molto più piccolo. È diventato un ragazzino proprio carino! Ed è anche timidissimo, non riesce neppure ad alzare gli occhi per guardarci, sbircia ogni tanto di sottecchi quando pensa che noi non lo si veda.

Ci avviamo verso la casa della mamma. Ci hanno spiegato che è un’abitazione messale a disposizione dalla Asian Bank. A mano a mano che proseguiamo nel viottolo sterrato escono dalle misere casette del villaggio alcuni curiosi che si assiepano ad osservare l’arrivo di insoliti occidentali. La loro curiosità aumenta l’imbarazzo e la conversazione stenta a decollare. Finalmente arriviamo.
La mamma, una bella ragazza vestita in modo ordinato e decoroso, ci accoglie in piedi sulla soglia dell’abitazione, un locale spoglio, che riceve luce dall’unica grande apertura sul davanti. È un ambiente minuscolo, arredato con un tavolino e due sedie in rattan. Sul tavolo ci sono bottigliette sigillate di acqua minerale, un gentile omaggio per noi ospiti. Altre sedie, di foggia diversa, sono state evidentemente prese in prestito dai vicini per permettere alla nostra piccola delegazione di sedersi. Sul fondo del locale c’è una parete divisoria alla quale è accostato un mobiletto con in cima l’altarino degli antenati. La parete  non arriva al soffitto e probabilmente funge da separé per la piccolissima camera da letto retrostante. Non penso ci siano servizi igienici, ma non oso chiedere.

Non esiste soffitto, il locale è sormontato direttamente da un tetto in lamiera. Penso che nei mesi più caldi vivere li sotto, senza coibentazione, debba essere come abitare all’interno di una fornace.

Enzo controlla lo stato del tetto, per verificare eventuali danneggiamenti procurati dal passato tifone a cui porre rimedio. Fortunatamente è integro.

Siamo tutti molto impacciati nonostante l’apparente euforia e lo sforzo di mantenere desta la conversazione. Tra l’altro non mi va che pensino a noi come a dei benefattori, mi piacerebbe ci considerassero solo amici, ma è difficile comunicare i sentimenti, soprattutto tra culture diverse e con la mediazione di un interprete. Ci informiamo sugli studi del ragazzo e sulle sue necessità, gli diamo i doni portati dall’Italia, e soprattutto gli chiediamo che cosa vorrebbe fare da grande.

“Vorrei diventare dottore”, dice con gli occhi abbassati e con un filo di voce “per aiutare gli altri, le persone come la mia mamma.” È una risposta che ci gratifica.

Caro Le Huy, la riferiremo alle “ziette” e agli “zietti” della Schifitombola.
Insieme a loro cercheremo di condurti per mano fino al traguardo desiderato.

 Good bye  Vietnam

Siamo agli sgoccioli, domani si torna in Italia. Ci tocca, ma è dura andarsene, ci sentiamo in famiglia con Tam, Enzo ed i ragazzi; ci sembra di conoscerli da sempre.

A mezzogiorno abbiamo pranzato insieme nella loro casa, una abitazione molto spaziosa e funzionale su tre piani, due dei quali adibiti all’organizzazione.

Il cibo preparato da Tam è squisito, cucinato in modo semplice e totalmente genuino; perfino la torta è cotta a vapore! I progetti, i sogni, le speranze loro e nostri si accavallano nei discorsi.

Il cruccio più grande dei Falcone è di non essere ancora riusciti ad acquistare il terreno dove erigere il nuovo ospedale. Quello vecchio, intitolato ad un caro amico di Enzo, Carlo Urbani, lo scopritore del virus responsabile dell’influenza aviaria o Sars e morto nel curare gli infettati dalla malattia, è stato abbattuto dalle autorità locali per lasciare il posto ad una strada. È stato un grande dolore per Care the people, che comunque  fra poco si rimboccherà di nuovo le maniche per ricostruirne uno più attrezzato e più grande.

“Bisogna sempre ingegnarsi, inventare nuovi espedienti per trovare i finanziamenti e far fronte alle necessità economiche. Spesso non si dorme di notte per la preoccupazione”, mi confida Enzo,” tuttavia non ci si può né ci si deve scoraggiare: il benessere di troppe persone dipende da noi ed il loro affetto ci fa andare avanti. Le nostre esigenze personali passano sempre in secondo piano. Ad esempio è da tantissimo tempo che non ci concediamo una vacanza. Ho visitato la vicina Cambogia solo nel 2013, dopo diciannove anni di permanenza in Vietnam e solo per motivi di lavoro.”

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